Esperienza di una Psicologa nell'Ambiente Ospedaliero in Mezzo alla Pandemia da Covid-19
“Dottoressa, oggi nel menù c’è il purè”!
“A lei piace il purè”?
“A me piace mangiare, è l’unico momento in cui medici e infermieri non entrano in stanza”.
Nel 2021, alla fine del mio percorso di studi dovevo svolgere il mio tirocinio per ottenere l’abilitazione.
Ho avuto occasione di lavorare per un anno in ospedale, nel reparto di Cardiologia, Cardiochirurgia e cardiologia riabilitativa.
Non serve dire che in ospedale c’erano ancora gli strascichi del COVID.
Il mio ruolo era supportare i pazienti cardiopatici, preparandoci ad affrontare l’intervento e il periodo di riabilitazione.
“Ludovica, oggi tu vedrai il signor Mario, nella stanza 402, nel reparto cardiochirurgia”
Per arrivare al reparto dovevo attraversare un parcheggio, salire tante rampe di scale e e superare vari corridori e portoni anti panico.
Arrivavo sempre dai pazienti sudata e la mascherina e le protezioni per il COVID non aiutavano. Il mio primo paziente, mi ha accolto in stanza dicendomi: “no grazie, forse parleremo un’altra volta”.
Certo, non è stata una grande esperienza da raccontare alle mie colleghe. Non sono tornata subito in studio però. Mi sono seduta a un tavolo rotondo posto in corridoio, dove i pazienti potevano incontrare i familiari, sedersi a leggere dei libri o chiamare i propri cari.
Era il mio primo giorno in ospedale e tutto aveva un odore così forte.
C’era odore di corpo umano.
Mi sono seduta e vedevo le persone passare, in una triste gara co le aste per le flebo si superavano l’uno con l’altro.
I medici camminavano veloci e le infermiere ridevano rumorosamente.
“In che senso che non vuole vederti?”
Giulia, la mia amica e collega di tirocinio era appena arrivata e si era seduta di fronte a me al tavolo rotondo.
“Non lo so, non aveva voglia di parlare”.
Giulia scriveva velocemente su dei fogli per annotare tutto quello che il suo paziente le aveva appena detto per poter scrivere la sua relazione.
Lei era già da 6 mesi che lavorava come psicologa tirocinante in ospedale, era veloce, brillante e sembrava non avesse paura di quei corpi e del loro odore quando li andava a trovare per i suoi colloqui.
I suoi pazienti la ricevevano sempre con un grande sorriso e lei risedeva accanto al loro letto, pronta per ricevere quello che avevano preparato per lei.
Il giorno seguente ho riprovato a fare il colloquio con il paziente.
“Signor Mario, buongiorno, le va di andare a fare una passeggiata?”
Vorrei potervi dire che il mio secondo tentativo fosse andato bene, ma anche in quell’occasione ricevetti un secco rifiuto.
Per una settimana il paziente non voleva fare colloqui con me e io cercavo sempre nuove strategie di aggancio, ma ogni volta che entravo nella sua stanza lui rimaneva a letto con gli occhi fissi sulla TV e rifiutava di fare i colloqui.
Irritata e umiliata non capivo dove stessi sbagliando ed ero stanca di portare le stesse notizie al team di psicologia clinica ogni giorno.
“Ludovica, il tuo paziente, Mario, ha chiesto un colloquio con te”
Le parole del supervisore mi avevano stupita.
Cartellina in mano, camice bianco e via.
Quasi correndo per attraversare il parcheggio, salire le 3 rampe di scale, attraversare 2 corridoi.
Ero pronta, sudata, ma pronta.
Davanti alla stanza 402 vedo però la porta chiusa e un cartello: isolamento aereo.
Il paziente voleva parlarmi adesso che aveva il COVID.
Mi preparo mettendomi il sovra camice. I sovra scarpe, doppio guanto, doppia mascherina, copricapelli.
Mi tremavano le mani, avevo paura di sbagliare qualcosa durante la vestizione e che questo avrebbe messo a rischio la mia salute, o peggio, la salute della mia famiglia una volta tornata a casa.
“Lo sta facendo apposta, ora che ha il covid vuole parlare con la psicologa!”
Entro in stanza, il mio paziente stava guardando la TV.
In silenzio mi avvicino al suo letto e inizio a guardare anche io la TV.
Nessun dei due parlava.
Io tesa, in piedi accanto a lui con la schiena bagnata e i miei occhiali appannati.
Sono rimasta in quella stanza per 20 minuti così, guardando la TV insieme, senza parlare.
Fino a quando il paziente interrompe il silenzio con un: “Grazie, ora può andare dottoressa”.
Nei giorni seguenti la scena si ripeteva allo stesso modo.
Fino a quando Mario un giorno mi ha accolta così:
“Dottoressa, oggi nel menù c’è il purè”!
“A lei piace il purè”?
“A me piace mangiare, è l’unico momento in cui medici e infermieri non entrano in stanza”.
L’ospedale è un via vai di gente.
I medici parlano alto pensando che tutti i pazienti siano sordi,
Le infermiere sono sempre di corsa e i fisioterapisti con i loro slogan motivazionali irrompono nelle stanza.
Ma nessuno è mai fermo.
Nessuno sta mai fermo e in silenzio nelle stanze con i paziente.
Mi sono sempre chiesta come mai…ma stare nel dolore in silenzio è una delle cose più difficili.
In silenzio e ferma si inizia a vedere e a sentire e a vedere tutto: il rumore dei macchinari, l’immoblità dei pazienti, la loro solitudine e l’odore chimico dei disinfettanti misto a quell’odore corporeo.
Stare nel dolore è importante per poter guarire.
Inizialmente contavo nella mia mente, 1….2….3…..4….per aiutarmi a far passare i minuti di silenzio.
Bisogna ascoltare il dolore per dargli la sua importanza, riconoscerlo, abbracciarlo e solo poi curarlo.